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LA SEPARAZIONE LEGALE

La separazione legale dei coniugi non pone fine al matrimonio, ma comporta l’attenuazione o il venir meno della maggior parte degli obblighi che dal matrimonio sono nati. In particolare, l’effetto principale della pronuncia della separazione è il venir meno dell’obbligo di coabitazione fra i coniugi. L’obbligo di reciproca collaborazione permane dopo la separazione con riferimento alle esigenze dei figli. Gli obblighi di reciproca assistenza permangono, ma muta la forma nella quale sono attuati: non più attraverso l’assistenza quotidiana che si realizza contribuendo ai bisogni dell’altro nella vita comune, ma attraverso il pagamento di un assegno di mantenimento che un coniuge può essere tenuto a versare al coniuge più debole. La separazione non fa venir meno i reciproci diritti successori dei coniugi, se non nel caso in cui essa sia pronunciata con addebito: in questo caso il coniuge a cui la separazione è addebitata perde i diritti successori nei confronti dell’altro (art. 548 c.c.).

Il diritto di chiedere la separazione ha natura personalissima. Come tale esso non è disponibile; non è quindi suscettibile né di essere rinunciato, né di cadere in prescrizione, né di essere trasmesso, ad esempio per causa di morte.

Dalla natura personalissima del diritto a chiedere la separazione, conseguono alcune assai rilevanti conseguenze. La morte di uno dei coniugi in pendenza del giudizio di separazione determina, secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante, la cessazione della materia del contendere. Per tanto, qualora il procedimento si trovi nella fase del giudizio di Cassazione, la morte di una delle parti comporterà l’annullamento senza rinvio della sentenza resa dalla Corte di appello.

Sempre sulla base della natura personalissima del diritto, si dibatte se il rappresentante legale della persona incapace possa presentare la domanda di separazione in nome e per conto del rappresentato. I tribunali hanno affrontato la questione con esiti opposti, talvolta escludendo la legittimazione del rappresentante, talaltra ammettendola con riguardo, segnatamente, all’iniziativa assunta dall’amministratore di sostegno. In quest’ultimo caso i giudici hanno però sottolineato la necessità di verificare che l’iniziativa del rappresentante corrisponda effettivamente alla volontà del titolare del diritto, dal momento che indubbiamente si tratta di una scelta fondamentale della vita, attinente alla sfera più intima della persona. Qualora sia il coniuge dell’incapace a chiedere la separazione, la giurisprudenza ha ammesso talora il tutore a costituirsi in giudizio, mentre in altri casi si è optato per la nomina di un curatore speciale.

Sempre dal carattere personalissimo dell’azione deriva l’inammissibilità dell’intervento di terzi in giudizio.

Il codice civile all’art. 151 precisa quali sono le condizioni in presenza delle quali la separazione può essere chiesta ed ottenuta: il verificarsi di fatti tali da rendere intollerabile la convivenza o il verificarsi di fatti tali da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. È irrilevante, invece, che tali circostanze si siano verificate indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi.

Nonostante il formale contenuto nella norma ora ricordata, da tempo la prassi giurisprudenziale sostanzialmente riconosce in capo a ciascun coniuge un vero e proprio diritto alla separazione. Tale circostanza rende poco utile, dal punto di vista pratico, tentare di individuare una casistica di motivi di separazione riconducibili alle due categorie individuate nell’art. 151 c.c.

L’intollerabilità della convivenza costituisce la causa che dà origine alla assoluta maggioranza delle separazioni. La dottrina si è a lungo interrogata su cosa si debba intendere per intollerabilità della convivenza e, in particolare, se essa debba essere valutata con criteri oggettivi, eventualmente facendo ricorso alla casistica o se possa bastare che il ménage coniugale risulti intollerabile anche ad uno solo degli sposi. Come è accaduto per altri aspetti della materia che ci occupa, la dottrina si è evoluta da posizioni più rigide e rigorose vicine ad una sensibilità sociale ancora legata all’idea di un matrimonio indissolubile, a posizioni che vedono nella separazione personale dei coniugi un riflesso della libertà dell’individuo. I sostenitori della necessità di individuare criteri oggettivi hanno sottolineato che, intendendo l’intollerabilità in senso soggettivo, si giunge al risultato di attribuire il diritto di domandare la separazione al coniuge che ha causato l’intollerabilità della convivenza, e ciò a dispetto della eventuale volontà dell’altro coniuge di mantenere l’unità familiare. Non mancano autori, attestati su posizioni intermedie, che propendono per una interpretazione della norma che tenga conto di entrambi i dati, sia quello oggettivo, sia quelli soggettivo.

La giurisprudenza abbraccia, da tempo, una interpretazione soggettiva della intollerabilità della convivenza basata sul presupposto che l’intera vicenda matrimoniale deve rispondere al principio del consenso, rilevante non solo nel momento della stipulazione del vincolo, ma anche successivamente per la sua sopravvivenza. Dunque, è sufficiente che uno solo dei coniugi non voglia continuare il percorso matrimoniale, anche per una sua disaffezione nei confronti dell’altro perché possa dirsi che la convivenza non è più tollerabile e perché possa essere pronunciata la separazione. 

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